Carla mangia sul balconcino sul retro.
Sono pochi metri quadrati, davvero pochi, ma sono tutti ricoperti da vasi. Vasi pieni di piante. Piante di ogni genere: fiori, arbusti, succulente, aromatiche; con aghi, petali, spine, foglie, bacche, frutti.
Carla mangia seduta davanti a un tavolino di ferro, al centro del balconcino, nell’unico spazio senza vegetazione.
Ha il volto rivolto verso il sole: è inverno, e il sole del mezzogiorno è basso.
Indossa un pesante maglione di lana che quando è in piedi le arriva sotto le ginocchia, ma ora tocca per terra.
Intorno al collo si è rigirata per tre volte una lunga sciarpa colorata.
Ha dei mezzi guanti neri, con dei piccoli pon pon all’altezza delle nocche.
Sta mangiando una zuppa di cavolo nero: è bollente, e il fumo si alza quasi compatto dalla scodella.
La radiolina posata sul tavolo trasmette musica araba. Lei alza appena il volume.
Si appoggia allo schienale tenendo la scodella nella mano sinistra.
Guarda la camelia con i boccioli già gonfi e intanto prende una cucchiaiata di zuppa.
Pensa che dovrebbe spostare due vasi per far posto all’elleboro.
Finisce la zuppa chiudendo ogni tanto gli occhi per raccogliere anche sulle palpebre i raggi del sole.
Alla radio hanno iniziato a parlare. La spegne.
Sente un piccolo brivido di freddo.
Apre il thermos e si versa del the caldo. Lo beve accarezzando con lo sguardo il limone, coperto dal telo invernale.
Riavvita il bicchiere del thermos e intreccia le mani sull’addome.
Si chiede se domani sarà ancora qui.
Si chiede se ha imparato qualcosa.
Si chiede se è egoista a godersi da sola il paradiso.
Si dice che ognuno ha un’idea diversa del paradiso.
Raccoglie la scodella e il thermos e rientra.
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