Salto il fosso. Resto su un piede solo e raccolgo il sasso. Faccio tre giri in tondo. Formo un otto con le dita, il dito medio che aggancia l’indice e lo curva indietro.
Dico le parole. E poi mi sporco la faccia con la terra e corro, corro, corro.
Arrivo al limitare del bosco: di là dalla collinetta ci sono le case, dietro di me la radura che ho lasciato.
Strofino la schiena a un tronco, sento ferite che nascono, come fiori che sbocciano.
Non temo più nulla. Non mi importa di nulla.
O forse è che mi importa di ogni cosa, davvero di ogni cosa.
Raspo nella terra come un cane, mi accovaccio e urino. Copro la buca in fretta, senza badarci. Ma lo faccio.
Mi ravvio i capelli. Pezzi di fango secco mi restano tra le dita.
Nessuno mi accoglierà e dovrò continuare a camminare.
Saltello sul piede che prima avevo sollevato. E’ a queste cose che presto attenzione.
Ora rotolo sulla schiena, sulla gobba che spaventa i vecchi e fa ridere i bambini. Arrivo alla base della collina.
Se salgo in cima mi vedranno. Mi vedono sempre. Forse risplendo. O forse sono una macchia nera contro il chiarore del cielo.
E allora salgo, perché non mi importa. Non mi importa di nulla.
E quando sono in alto vedo il villaggio, e tra poco sentirò qualcuno gridare.
Comincerò a camminare.
Salterò il fosso. Starò su un piede e raccoglierò un sasso. Farò tre giri in tondo.
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